Gli anticorpi alla Tv bugiarda

di  PIERO OSTELLINO (da Il Corriere della Sera del 4 maggio 2008)

Ogni sera milioni di russi sintonizzano il loro televisore sul Primo canale e guardano Vremya, il telegiornale pubblico diffuso sull’intero territorio nazionale e il più seguito. Succedeva anche ai tempi di Breznev. Vremya era il solo telegiornale nell’era sovietica. Quando morì Mao, diede la notizia alla fine, per ultima, in poche parole, dopo aver «aperto» con una tiritera sui successi dell’agricoltura collettiva. I sovietici guardavano il telegiornale come scorrevano i giornali, cercando di «leggere fra le righe» delle notizie ufficiali. La collocazione degli uomini della nomenklatura nell’elencazione che ne facevano tv e giornali — elenco citato e ripetuto in tutte le occasioni pubbliche — voleva dire che qualcosa era accaduto dietro le mura del Cremlino. Forse, non avrebbe cambiato la loro misera vita; certamente, ne forniva una pallida spiegazione.
Togliatti negava che la Pravda («la Verità »), il quotidiano del Partito comunista, non desse le notizie, così come le
Izvestia («le Notizie»), il quotidiano del governo, non dicessero la verità; per sapere come stavano le cose — suggeriva il Migliore — bisognava leggere la Pravda
dalla prima all’ultima parola, «soprattutto l’ultima». Allora erano i giornali — stampati a milioni di copie, diffusi per abbonamento (quasi) forzoso e a poco prezzo, rigidamente controllati dal regime— a farla da padroni. Ma quando già il regime comunista stava crollando, i responsabili di tv e giornali avevano pensato che un modo forte per segnalare il cambiamento in corso fosse un’informazione più articolata. La Glasnost — la «trasparenza » — fu la parola d’ordine politica di Gorbaciov, che si tradusse, poi, nella prassi di un primitivo e confuso pluralismo editoriale una volta dissoltasi l’Unione sovietica.
Oggi quella stagione si è in gran parte chiusa. I giornali, non più sussidiati dallo Stato, sono venduti a un prezzo che il potenziale lettore ritiene troppo elevato; inoltre, per lo più, nelle mani di editori amici del Cremlino, non appaiono più appetibili di quanto già non fossero la Pravda
ole Izvestia; perciò, la loro lettura è considerata dalla maggioranza dei russi solo una inutile perdita di tempo. Il volume delle notizie televisive, per quanto maggiore di quello ai tempi del comunismo, e la loro presentazione, nascondono o distorcono, da parte loro, tutto tranne che il punto di vista del governo. Le notizie sono controllate dal potere centrale e costruite in modo da compiacere il Cremlino più che indirizzate al telespettatore. Ma che cosa ne pensa quest’ultimo che, bene o male, è adesso in grado di esercitare il proprio spirito critico più e meglio di prima? È questa la domanda che si è posta Ellen Mickiewicz, docente di Scienza politica alla Duke University, ieri uno dei più reputati sovietologi americani, oggi la maggiore autorità nel campo dello studio e dell’analisi dei mass media russi. Ellen, della quale sono amico fin dai tempi in cui ero in Urss, ha interrogato quattro focus groups di telespettatori di altrettante città: Rostov, sulle rive del Don, capitale del Distretto federale meridionale; Volgograd, ai confini col Kazakhstan; Nizhny Novgorod, l’ex Gorky dove fu esiliato Sakharov, a 250 miglia di Mosca; infine, Mosca, la capitale.
«Quando pressoché un’intera popolazione dipende, per le notizie, dalla televisione, e i suoi leader politici le assegnano miracolosi poteri e inghiottono un canale commerciale dietro l’altro — si chiede la Mickiewicz — non dovrebbero essere ansiosi di sapere che cosa i telespettatori fanno delle notizie? Non è forse il processo di assimilazione, da parte dei telespettatori, vitale per la loro strategia quanto la formulazione del messaggio? La risposta a entrambe le domande è: “no” (…) Quelli che controllano l’agenda televisiva e le sue immagini — conclude — operano nella convinzione che i telespettatori assimilino il messaggio così come è formulato e trasmesso» (Ellen Mickiewicz: «Television, Power, and the Public in Russia», Cambridge University Press). Ma non è così.
Quando c’era ancora una certa differenza fra i canali, cioè prima che Putin e i suoi amici — che detengono il controllo delle fonti energetiche nazionali — chiudessero le stazioni televisive private che trasmettevano punti di vista diversi dal suo, i russi avevano elaborato una singolare capacità di identificare le stazioni televisive e i loro punti di vista solo ascoltandone le notizie a occhi chiusi; capacità che utilizzano oggi per decifrare i messaggi del regime. Essi dispongono di un bagaglio di tecniche interpretative, superiore al telespettatore americano, che consente loro di discernere quanto c’è di obbiettivo in un’informazione limitata e manipolata.
L’85 per cento dei russi preferisce ancora i canali nazionali — e fra questi, al primo posto, Vremya, controllato dal Cremlino — ma non nasconde la propria irritazione per le notizie che danno. La soppressione del pluralismo non si è tradotta nell’accettazione del quadro informativo. Così, le notizie sulle elezioni sono «un articolo di fede» per chi le produce, mentre la percezione dei telespettatori è che le elezioni siano un periodico e confuso fenomeno al di fuori delle loro vite, dalle quali solo essi traggono le informazioni necessarie a «interpretare» le informazioni ufficiali; la convinzione diffusa è che sia il Cremlino a determinarne l’esito, non il voto; che gli elettori possano scegliere solo ciò che è nel menu elettorale del Cremlino e che esso può alterare come vuole.
Dato che la corruzione è generalizzata, gli interessi delle lobby vicine al Cremlino prevalgono su quelli generali, il potere politico è invasivo, i telespettatori non hanno fiducia nelle statistiche, a meno che non siano comparate (e comparabili) con altre; danno per scontato che molte notizie siano «comprate », e gli pseudo-eventi trasmessi a gloria e vanto dei protagonisti del potere siano «ordinati » e «commissionati» ad arte.
Anche se i russi hanno accettato passivamente la chiusura di due stazioni televisive indipendenti (la NTV, prima; la TV-6, poi), Ellen Mickiewicz si chiede ugualmente se lo Stato e i suoi alleati privati — che hanno speso miliardi di dollari per impadronirsi di quelle private e manometterne i contenuti informativi — siano stati, poi, tanto realisti. Le idee emerse dalla sua indagine sembrerebbero smentire l’assunto. Per i russi, la necessità strategica di guardare la tv rimane. È anche probabile che la carenza di notizie renda sempre più difficile l’approdo e la presenza nel Parlamento di posizioni politiche diverse e alternative. Ma è anche un fatto che, nelle condizioni di vita attuali, migliori e più aperte in tema di libertà di pensiero e di opinione rispetto ai tempi sovietici, i telespettatori hanno imparato a consultarsi l’un l’altro per verificare le proprie impressioni su ciò che
Vremya racconta ogni sera, e sempre meno accettabile appare loro il divario fra i comportamenti della leadership e il menu televisivo. La libertà, anche quando è limitata, ha sempre un potenziale rivoluzionario. Tanto più se il potere ne ignora l’impatto come emerge dalla bella indagine della politologa americana. Persino in Russia.
postellino@corriere.it (SERGEI ILNIT)

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