I processi legati alla globalizzazione hanno incrementato il potere delle multinazionali fino a raggiungere un livello mai visto dai tempi della nascita del capitalismo moderno. Questo le ha anche portate a giocare un crescente ruolo politico e sociale in aggiunta a quello economico, il tutto con ricadute a livello locale, nazionale e transnazionale.
Una mutata sensibilità da parte dei cittadini/consumatori fa sì che le imprese adottino sempre più un approccio politico che le spinge a schierarsi, a non restare politicamente neutrali.
Un caso è sicuramente costituito dalla guerra in Ucraina che ha portato più di 1000 brand, da ridurre i loro affari o la loro presenza in Russia fino all’interruzione di ogni rapporto commerciale.
Una ricerca dell’Università di Yale classifica tali brand da A ad F, dove A viene assegnato alle marche che hanno completamente lasciato la Russia come nel caso di McDonald e Starbucks. Quello che è accaduto ai due brand citati (come a diversi altri) è stato il cambio dei nomi sostituiti da attività similari, ma russe: così “Starbucks” è diventato “Star Coffee” e “McDonald” ha cambiato nome in “Vkusno & Tochka.”
McDonald era presente dal 1991, l’anno precedente al collasso dell’Unione Sovietica.
Il conflitto ha anche smentito la teoria del 1996 ad opera di Thomas Friedman che indicava la presenza di McDonald come segnale della presenza di una solida classe media e di integrazione globale, due fattori che rendevano altamente improbabile un conflitto.
Le grandi aziende devono dotarsi di competenze diplomatiche, di una vera e propria politica estera che permetta di comprendere l’instabilità e l’incertezza internazionale, il possibile sviluppo di conflitti economici e commerciali (oltre che militari), le dinamiche per ottenere legittimità ad operare e consenso.
Le aziende hanno bisogno di sviluppare un nuovo modo di operare e di acquisire nuove competenze e nuove professionalità.

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